paomag.net - home
page di paolo
magaudda - pmagaudda@tiscali.it
|
|
2.1. La nascita delle etichette indipendenti 2.2 Le indipendenti come difensori della diversità |
La
Produzione indipendnete di Musica elettronica - tesi di laurea in Sociologia
della Comunicazione
|
La definizione di ‘etichetta indipendente’ ha iniziato a definirsi in maniera posizionale rispetto a un ‘centro’ da cui l’intera industria discografica era dipendente; questo centro, iniziatosi a costituire già a partire dagli anni ’30, raggiungeva la propria maturità dopo la Seconda Grande Guerra nella forma di un oligopolio composto da quattro grandi compagnie discografiche. I primi successi delle etichette indipendenti arrivano con il rock’n’roll a meta degli anni ’50, e da allora è mutato il ruolo e le caratteristiche di questi soggetti produttivi, nonché la relazione che li lega al centro. Parallelamente alle vicende del mercato, si è sviluppato negli ultimi trent’anni un discorso critico e una riflessione sul ruolo e il valore di queste forme di produzione, un dibattito che si articola comunemente in due differenti interpretazioni. La prima posizione, che parte dalle riflessioni di Peterson e Berger sulla relazione tra mercato e innovazione e sulla ciclicità delle condizioni del mercato [cfr. cap. 1.], riconosce per le etichette indipendenti un ruolo di attiva ricerca musicale e di più in generale quello di difensori e garanti della diversità musicale rispetto al sistema strutturato delle grandi compagnie discografiche [Peterson e Berger, 1975]. L’altra tendenza, che trova la base di partenza nel concetto di ‘sistema aperto’ presentata da Dowd, riconsidera il ruolo delle piccole etichette all’interno di un sistema discografico che ingloba tutti i soggetti discografici in una unica costellazione di attività. In questa costellazione le distinzioni tra major e indie, tra ciò che è commerciale e conservatore e ciò che è sperimentale e innovativo sfumano gradatamente. Questo punto di vista tende a sottolineare il contenuto prevalentemente retorico del concetto di indipendente, cui viene riconosciuta la funzione di fornire a queste produzioni che di questa definizione si fregiano una legittimità in un mercato musicale in cui le classifiche di indie rock hanno acquistato un’importanza non inferiore alle classifiche mainstream. Questo fenomeno si è accentuato nel corso degli anni ’90, periodo in cui l’indie è diventato il corrispettivo inglese del genere americano di alternative rock [Hesmondhalgh, 1999/b, 35]. Alcune recenti riflessioni tentano di sfuggire per un verso da una ricostruzione antiquata della struttura e delle strategie del mercato discografico, per un altro da una prospettiva che non distingue al interno del sistema produttivo i meccanismi di potere attraverso i quali il mercato discografico è tenuto sotto controllo dalle grandi imprese dell’intrattenimento. Queste riflessioni cercano di porre l’accento sull’idea che, pur mutando i generi musicali, le pratiche e le forme di azione, le etichette indipendenti costituiscono dei tentativi di proporre un’alternativa alla forma che le compagnie multinazionali impongono alla musica attraverso il dominio economico delle relazioni di produzione. Una delle riflessioni più complete riguardo l’attività delle etichette indipendenti è il lavoro svolto da David Hesmondhalgh, che nel corso degli ultimi anni ha svolto numerose ricerche su varie etichette indipendenti inglesi, tra cui la Rough Trade [1998], la Creation e la One Little Indian [1999/b] e la Nation [2000]. Il ricercatore inglese ha inoltre inquadrato i dati e le osservazioni raccolte in questi lavori in un quadro teorico cda lui definito attivismo mediatico alternativo (AMA) che focalizza l’attività dei produttori culturali alla luce della necessità di maggiore apertura e democraticità del processo di produzione culturale [1999/a]. 2.2
Le indipendenti come difensori della diversità Il primo importante contributo al dibattito sul ruolo delle etichette indipendenti è dunque quello di Peterson e Berger [1975]. I due studiosi interpretano l’attività delle etichette indipendenti come il motore dell’innovazione delle forme musicali e le assegnano un ruolo di difensori della diversità. L’attività delle etichette indipendenti, dicono i due ricercatori, portò nel 1955 alla rottura dell’oligopolio commerciale che le major detenevano almeno a partire dagli anni ‘30, nonché dell’omogeneità delle forme musicali proposte dall’industria discografica, poiché favorì l’introduzione del nuovo stile del rock’n’roll a scapito della forma codificata della canzone Tin Pan Alley impersonata dalle figure tra gli altri di Frank Sinatra, Perry Como e Tony Bennet. [Peterson, 1990]. Nelle dinamiche dello sviluppo del mercato discografico della metà degli anni ’50 questa visione è supportata dalle classifiche dei dischi più venduti. Un’evidente contrapposizione tra etichette indipendenti e major riguarda inoltre le differenti tipologie delle strutture organizzative e delle dimensioni di queste imprese: ad organizzazione burocratica e centralizzata delle compagnie multinazionali si contrapponevano piccole e agili strutture orizzontali [Peterson, 1990]. Anche la letteratura che, come vedremo, si discosta da questa interpretazione per quanto riguarda i periodi successivi, si trova in accordo con Peterson e Berger per ciò che riguarda il ruolo delle indipendenti in questo frangente storico [Dowd, 2000; Lee, 1995]. E’, dunque, in seguito a questo periodo che si delinea un’interpretazione conflittuale della relazione tra indipendenti e major, poiché è questo il periodo in cui le indipendenti entrarono in diretta concorrenza con le grandi compagnie e né usurparono parti consistenti del mercato. Uno dei principali effetti dell’entrata nel mercato delle etichette indipendenti fu, secondo Berger e Peterson, un aumento della diversità musicale e della diversificazione dei generi e una consistente diminuzione dell’oligopolio che fino allora aveva caratterizzato il mercato discografico. È in seguito a questi avvenimenti inoltre che intorno alle etichette indipendenti si costruisce una dimensione ideologica. Simon Frith [1983 e 1986] ha ricostruito il collegamento ideologico che associa allo stile del rock’n’roll il valore di autenticità rispetto ad altre forme musicali, nonché il valore di comunità in cui “non c’è distinzione di esperienza sociale tra performer e audience” [Frith, 1983, 159]. Come rileva Stephen Lee, “nel discorso che si sviluppò intorno al rock’n’roll durante gli anni ’60 e ’70, le compagnie indipendenti si configurano come difensori pienamente ‘autentici’ delle pratiche del rock” [Lee, 1995, 13]. In base a quest’associazione tra il rock’n’roll autentico e le indipendenti che propongono il rock si rinforza l’interpretazione delle indie come depositarie del valore della diversità musicale e come difensori della musica autentica opposta alla musica commerciale fino allora prodotta dalle compagnie major. Abbiamo visto in precedenza che la reazione delle compagnie major alle repentine trasformazioni del mercato discografico intorno alla metà degli anni ’50 fu quella di adeguare le proprie strutture, le proprie strategie nonché gli stili musicali a quelle delle etichette indipendenti. Le major iniziarono dunque una politica di decentralizzazione della produzione, della ricerca di nuovi talenti e non in ultimo quella della diretta acquisizione delle concorrenti indipendenti. Le major iniziarono ad acquisire e creare differenti tipi di collaborazioni con le indipendenti che si erano affermate e a creare proprie sotto-etichette che permettessero loro di diversificare gli stili musicali utilizzando differenti marchi e ad andare alla ricerca di nuovi talenti musicali, come avevano fatto le prime piccole etichette indipendenti. Un esempio è costituito dalla carriera di Elvis Presley. Elvis aveva ottenuto il primo successo discografico con l’etichetta Sun, con il singolo That’s all right, Mama nel luglio del 1954. La Sun era un’etichetta di dimensioni regionali che non navigava in buone acque dal punto di vista economico. Raggiunto un discreto successo di vendite, Elvis iniziò ad interessare le grandi compagnie del disco, e in seguito ad un’asta cui parteciparono anche la Mercury, la Columbia e l’Atlantic, il contratto di Presley passo nelle mani della RCA, che per 35.000 dollari alla Sun, 5.000 dollari e una Cadillac al cantante, si accaparrò i diritti di registrazione futuri e lo sfruttamento d quella già realizzate per la Sun Records [Hidalgo, 1987, 47]. Nello stesso periodo ogni major apriva etichette sussidiarie. La Decca fondava le sottoetichette Coral come divisione per il rithm’n’blues e Brunswick per produrre musiche per adolescenti; già nel 1954 la RCA controllava la Groove, la Camdem e la X e anche le altre major si fornirono presto delle loro etichette ‘pseudo-indipendenti’ [Dowd, 2000, 235]. Il fenomeno si sarebbe poi moltiplicato nei decenni a seguire tanto che agli inizi degli anni ’90 la Time Warner possedeva più di 75 etichette affiliate [ibidem, 236]. Anche la struttura organizzativa interna delle multinazionali mutava. Le grandi imprese fino ad allora altamente burocratiche e verticalmente gerarchizzate iniziavano a creare divisioni interne semi-indipendenti, così da rendere più agili i processi decisionali e dunque più legati alle reali situazioni di mercato. Grazie a queste strategie di affiliazioni e acquisizioni e di ristrutturazione generale delle proprie dinamiche produttive, le major riuscirono in pochi anni a istaurare nuovamente la situazione di oligopolio di mercato precedente al 1955, tant'è che, pur essendo sceso il tasso di concentrazione del mercato nelle mani delle prime quattro compagnie al 25% nel 1962, già nei primi anni ’70, sia negli Stati Uniti sia nei principali paesi Europei il tasso di concentrazione risaliva intorno al 70% [Peterson e Berger, 1975; Laing, 1985; Hamm, 1985]. Ad appena 15 anni dalla trasformazioni avvenute nel 1955, il mercato discografico ritornava nuovamente sotto il controllo di un oligopolio composto da cinque grandi imprese multinazionali dell’intrattenimento.
|
|