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2.3. La revisione del concetto di ‘indipendente’
La Produzione indipendnete di Musica elettronica - tesi di laurea in Sociologia della Comunicazione

Il risultato dell’appropriazione degli stili e delle strategie aziendali e commerciali delle piccole etichette da parte delle major ha condotto molti studiosi del mercato musicale a ridefinire il concetto di ‘etichetta indipendente’. Questa tendenza ha trovato sicuramente un impulso nella volontà di dare conto della dimensione retorica che si è andata formando intorno all’idea di ‘indipendenti autentiche’. Di fatto le major iniziano a controllare in forme differenti molte di quelle etichette che fino a poco prima erano delle vere indipendenti e più in generale il decentramento del sistema produttivo da parte delle major permette loro di emulare perfettamente la dinamicità e il contatto con il gusto della gente tipico delle indipendenti.

Abbiamo già visto come Dowd ricostruisca in base a queste dinamiche le caratteristiche del mercato discografico, definendolo a partire dal 1955 come un ‘sistema aperto’ [cfr. 1.3]. Del resto anche Peterson mette in rilievo il progressivo slittamento verso forme più elastiche di produzione a partire dal 1955: “Un’altra forma di organizzazione della produzione emerse, che io chiamo solo-production, in cui tutti i livelli creativi sono eseguiti sotto la diretta supervisione di un solo individuo. Una grossa parte dei più innovatori produttori del primo rock lavorava con questa modalità” [Peterson, 1990, 106]. Insomma la decentralizzazione del lavoro e l’aumento di autonomia produttiva fu un dato di fatto che caratterizzò anche le dinamiche di produzione delle compagnie multinazionali.

Una revisione del concetto di indipendente e della relazione tra indie e major è proposta da Keith Negus. Egli descrive il mondo della produzione discografica come una complessa e confusa rete [web] di relazioni tra gruppi di lavoro in cui è impossibile ricostruire un centro e dei margini e in cui la negoziazione costante in fase di lavoro è il dato caratterizzante [Negus, 1992]. Egli non solo ritiene che un’interpretazione delle dinamiche del mercato discografico alla luce dell’opposizione tra multinazionali e piccole etichette sia fuorviante, ma che tale opposizione rifletta una sostanza prevalentemente retorica e che “una più flessibile distinzione, che utilizzi termini meno peggiorativi, potrebbe essere quella di distinguere tra compagnie maggiori e minori” [ibidem, 18]. Egli riconosce alle piccole compagnie un ruolo attivo nel rendere popolari nuovi stili e nell’aprire nuovi spazi del mercato discografico, ma ritiene che oramai il mondo della discografia costituisca una ‘costellazione’ di varie entità le cui pratiche e dinamiche si confondono in una costante negoziazione. Per Negus, insomma, una distinzione ha senso in termini puramente dimensionali (più grande e più piccola) e utilizza la metafora di “costellazione impresariale” [corporative constellation] da opporre alla precedente idea di conflitto per spiegare la relazione tra grandi e piccole etichette [ibidem].

Un altro tipo di revisionismo è proposto da Dowd, sostenitore della tesi del ‘sistema aperto’. Egli mette in risalto, nella sua interpretazione del mercato discografico tra il 1955 e il 1990, l’adozione di un tipo di produzione decentrata da parte delle major, che abbiamo descritto poco sopra. Tale strategia, sostiene Dowd, ha permesso al mercato del disco di far convivere diversificazione e concentrazione del mercato e questo dimostra come le etichette indipendenti, che rispetto agli anni a cavallo tra i ’50 e i ’60 hanno perso gran parte del mercato discografico, non possono più essere considerate difensori della diversità. Inoltre, sempre riguardo alle etichette indipendenti egli propone e poi discute la seguente tesi: “Le canzoni delle indipendenti sono musicalmente meno varie di quelle della major” [2000, 240]. Questa ipotesi è basata principalmente sull’idea che, disponendo le piccole etichette di meno mezzi e pubblicando musicisti poco affermati o esordienti esse devono superare più difficoltà trovandosi in tal modo svantaggiate rispetto alle etichette più poderose [241].

La visione di Timothy Dowd va oltre l’intenzione di Negus di sfumare la linea di demarcazione tra indie e major. Egli in parte ribalta la precedente visione della produzione indipendente, quella che la considera l’ultimo baluardo della diversità e della sperimentazione musicale, e propendendo per una visione cooperativa delle relazioni tra major e indipendenti e utilizza il termine ‘simbiosi’ per descrivere la situazione dell’industria a partire dal 1955 [ibidem, 234].

Un ulteriore contributo alla revisione dello status delle etichette indipendenti nasce da una ricerca svolta da Stephen Lee [1995] tra il 1990 e il 1993 sulle vicissitudini dell’etichetta indipendente americana Wax Trax Records[1]. Partendo dal case study della Wax Trax, Lee articola in tre punti principali la ridefinizione del concetto di ‘etichetta indipendente’. In primo luogo, egli rielabora questo concetto alla luce delle varie forme di collaborazione e interdipendenza che le indie intrattengono con le grandi compagnie. Secondariamente, egli afferma che i linguaggi e gli stili delle indipendenti sono entrati a far parte delle consuete dinamiche di produzione della major, cadendo così gli elementi di differenziazione sostanziale tra le une e le altre. In terzo luogo, Lee sostiene che l’interpretazione delle indie come portatrici di un’alternativa alle pratiche economiche e produttive delle major èa divenuta indifendibile. Egli conclude la sua analisi sottolineando come in questo tipo di situazione le major possiedano dei vantaggi nei confronti delle piccole etichette per ciò che concerne le possibilità di sfruttare il valore di indipendente sul mercato discografico, come esso si è andato definendo.

Lee sostiene, rifacendosi a Frith, che la comunanza di strategie da parte di major e indipendenti ha condotto a circoscrivere il significato di indipendente ad un livello ideologico piuttosto che ad una sostanziale contrapposizione delle pratiche economiche e produttive. “L’ideologia d’indipendenza proposta dalla Wax Trax! accentua più attributi sociali e culturali che economici” [Lee, 24]. Dunque il contenuto della definizione d’indipendente si articolerebbe principalmente come valore ideologico, e in quanto tale può essere sfruttato sia dalle vere indipendenti sia da quelle non veramente tali. “Se i fan in pratica non sono in grado di distinguere tra un’etichetta pienamente indipendente e una che si è trasformata in un ibrido (o potenzialmente una major), allora qual è l’importanza di un’articolazione sociale di un’ideologia conosciuta come indipendente?” [29]. Secondo Lee, insomma, il contenuto del concetto di indipendente si sarebbe disintegrato nella sostanza e ne sarebbe rimasto solo il contenuto nostalgico di “un epoca differente che trattava i concetti di artista, indipendenza e pubblico come qualcosa di condiviso” [30]. Il concetto di indipendente si presenta dunque come un artificio retorico svuotato di una sua sostanza reale. Inoltre sostiene il ricercatore americano che le indipendenti, non disponendo più del vantaggio competitivo assicuratogli dal monopolio del valore di indipendente, si trovano ad affrontare uno svantaggio costituito dalla povertà di mezzi e dall’inefficacia causata da un approccio più dilettantistico che professionale [Lee, 24 e 25].

In effetti, uno dei problemi più sentiti dalle etichette indipendenti è quello delle poche possibilità per esse di consolidare la propria posizione sul mercato una volta raggiunto del successo. In particolare, il controllo del sistema distributivo da parte delle grandi compagnie è considerato il ‘collo di bottiglia’ delle piccole produzioni, in particolare negli ultimi anni in cui i costi per incidere e stampare musica si sono ulteriormente abbattuti e le spese per la promozione e il marketing incidono in maniera sempre maggiore. Sulle possibilità di sopravvivenza e di sviluppo delle etichette indipendenti è sufficientemente esplicativo ciò che dice Alan McGee, responsabile di una delle etichette di successo storiche inglesi, la Creation[2], a proposito delle possibilità cui si trova di fronte una piccola etichetta che ha riscosso un effettivo successo di vendite: “Ci sono solo due cose che succedono con le etichette indipendenti – o tu esci dal mercato vendendo o muori. E così. Non c’è via di mezzo”[3]. Tutto ciò  parrebbe confermare l’idea di Lee, per cui, superata una certa soglia per cui le etichette passano da un’attività simile al hobby a rivestire un ruolo rilevante in un certo settore di mercato, l’unica soluzione è adottare delle strategie simili a quelle delle major oppure arrivare a delle collaborazioni con queste ultime o direttamente alla cessione dell’attività [Lee, 1995, 15 e seg.].



[1] La Wax Trax! Records iniziò le attività nel 1981 come importatore di piccole produzioni europee negli USA. Nel 1983 iniziò a produrre dischi di musica dance alternativa. Tra il 1985 e il 1991 ottenne un discreto esito che presto si trasformò in vero successo grazie anche alle copertine dedicategli da prestigiose riviste del settore. Questo comportò una necessità di ampliare la propria attività e dunque di ricercare nuovi finanziamenti. Ma nel 1992, l’etichetta sfiorò la bancarotta e fu costretta a accettare la compartecipazione sia nel settore produttivo che distributivo con la Interscope Records, una sussidiaria della Atlantics Record, marchio appartenente alla multinazionale Time Warner. [Lee, 1995, 15.]

[2] La Creation è stata una delle etichette indipendenti inglesi che durante glia anni ’80 e ’90 riscosse più esito, sia sul mercato nazionale che su quello internazionale.

[3] Riportato in Hesmondhalgh, 1996, 477.

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